Le "Curtes"
E’, infatti, a questo periodo che deve ascriversi la nascita di numerose chiesette, come San Mauro e San Sabino (detto anche San Savino), nei pressi di Capradosso, Santa Maria Sconzia (oggi S. Maria Donati), ai piedi della sommità su cui sorse poi Staffoli, S. Maria della Macchia, S. Martino in Broilo, S. Silvestro, S. Angelo in Colle Dordonis, nelle campagne di Petrella, S. Lucia, S. Quirico e S. Anatolia nel sito dove oggi é la Diga del Salto, mentre sulle montagne luoghi di culto si ritrovano in S. Angelo di Staffoli, oggi parrocchiale dello stesso centro, le grotte di S. Nicola di Staffoli e di Piagge (oggi Grotta della Beata Filippa), mentre, forse più tarde, sono le pievi di S. Andrea in Capradosso, oggi scomparsa, e che era sita nel luogo dove oggi sorge il cimitero della frazione, e di San Giovanni in Staffoli, già citata nonchè l’altra importante pieve anch’essa di giurisdizione vescovile, che fu S. Maria in Foro Marerii, oggi parrocchiale di Mercato, frazione del Comune di Fiamignano. L’assenza di citazioni di toponimi siti nel nostro territorio, all’epoca delle invasioni barbariche, ci costringe a basare la nostra ricostruzione unicamente su documenti posteriori e sull’esistenza di luoghi di culto di chiara origine monastica, nonchè a lavorare in analogia con altri territori equicoli vicini, che, per la loro situazione geografica dovettero subire lo stesso destino del territorio da noi preso in esame.
Comunque, certamente dovettero esistere delle "curtes" site nei pressi delle principali pievi, quelle "curtes" da cui poi dovettero avere origine i centri incastellati. Nel pressi della pieve di S. Andrea, infatti, esisteva un insediamento romano erede come gli altri della ormai scomparsa Cliternia.
Lo stesso deve affermarsi per San Giovanni di Staffoli e per la "Curtis de Broilo" nei pressi di Petrella, in quella vallata attraversata dal torrente Pereto ove ancora permane il toponimo di "Imbroino". E proprio nella "Curtis de Broilo" é documentata, ed esistente fino al secolo XVI la chiesa di San Martino de Broilo, dove anche fu ritrovata l’epigrafe classica di L. Hirredio.
La "Curtis de Broilo" meriterebbe più ampio approfondimento poiché, quasi sicuramente, vista la sua ubicazione, da essa nacque il centro incastellato di Petrella. Purtroppo di essa, a parte quale citazione, non restano documenti e ti tali da suffragare uno studio serio. Un reperto, però, ha destato la nostra curiosità e richiamato la nostra attenzione: in una piccola finestra della via XX Settembre di Petrella Salto, appare murata una pietra che porta un ornamento a fregi che vagamente può richiamare dei tralci di vite. Infatti, nelle altre pietre che incorniciavano la finestra altre mani, in periodo più recente hanno abbozzato altri fregi con pampini e tralci d’uva.
La fattura del fregio sicuramente é da ascriversi al periodo dell’Alto Medio Evo preromanico, per cui si può verosimilmente arguire che la stessa pietra possa provenire da una "curtis" e, forse, da quella più prossima, cioé quella di "Broilo". L’importanza del manufatto non va sottovalutata, poiché può essere un valido tassello per la ricostruzione della storia del territorio in questo periodo che, se fu oscuro per le difficoltà di vita delle popolazioni, certamente lo é anche per lo storico che deve orientarsi con grande difficoltà tra i pochi reperti ascrivibili a questo periodo. Comunque, dall’ubicazione degli edifici di culto esistenti in quel periodo dalla loro chiara origine monastica e pievana, tenendo conto anche delle documentazioni esistenti, si può con una certa chiarezza ricostruire il tipo di organizzazione ecclesiastica precastrale.
Anche nel territorio di Petrella la presenza monastica fu attiva e capillare ma che, comunque, non giunse, come altrove nel Cicolano, all’insediamento di centri monastici di tipo abbaziale vero e proprio, come San Paolo de Cocotha, o San Lorenzo in Vallibus, in territorio di Fiamignano, o come San Paolo in Orthunis in quello di Borgorose e ciò, forse, e spiegabile con la vicinanza di Rieti, che non permise all’autorità vescovile di eclissarsi totalmente nella zona. Infatti, con l’invasione longobarda e fino all’affermarsi della dominazione franca, la crisi dei centri urbani toccò il fondo, per cui anche l’autorità vescovile, presente nelle città, non poté essere esercitata in pieno su tutto il territorio.
Dal fatto derivò una crisi delle istituzioni ecclesiastiche periferiche che il Cristianesimo e lo stesso culto furono salvati solo per la presenza e l’opera dei monaci benedettini. La non lontana Abbazia Imperiale di Farfa e quella di San Salvatore Maggiore, compirono in quel tempo una vera e propria opera missionaria, inviando anche nel Cicolano i loro monaci, non solo a salvare ed a continuare l’evangelizzazione della zona, ma anche a dirigere la vita sociale, anche reinsegnando l’agricoltura a quelle popolazioni che, molto efficacemente impersonano l’appellativo manzoniano di "volgo disperso che nome non ha".
L’avvento dei monaci fu, comunque favorito anche dall’autorità civile, impersonata dai duchi longobardi di Spoleto, al quali l’intero Cicolano apparteneva.
Nel 761, infatti, il duca di Spoleto, Gisulfo, dona all’abbazia di Farfa la metà del Gualdo ai confini del Cicolano, con la chiesa di S. Michele Arcangelo, o meglio di S. Angelo di Fiumata. Secondo lo Staffa nella stessa chiesa era, come nelle altre, anche materiale di spoglio romano e doveva risalire al V o VI secolo. L’ organizzazione ecclesiastica, pertanto, in tutto l’Alto Medioevo restò basata intorno all’attività dei monaci e ad essa fece continuo riferimento.
La stessa crisi della proprietà terriera locale favoriva l’avanzare della giurisdizione monastica attraverso un fenomeno generalizzato di donazioni che permetteva, poi, agli stessi proprietari, di divenire dipendenti dell’abbazia e di vivere sotto la sua protezione. Lo stesso avveniva per i chierici, che si legavano all’abbazia, magari assumendo abito monastico, continuando nel loro luogo di origine la cura pastorale.
E’ il caso proprio della citata chiesa di S. Angelo, dove il rettore é un prete che riceve dall’Abbazia la cura delle anime e l’amministrazione della chiesa, dove doveva curare anche la formazione di altri giovani chierici.
Il fenomeno doveva continuare anche con l’accordo dei Vescovo di Rieti, il quale, sicuramente impossibilitato ad avere la cura piena dei territori, accettava l’opera dei monaci anche se, di fatto, questa veniva a diminuire e quasi a far scomparire totalmente la sua autorità pastorale.
Abbiamo fatto cenno alla grande fioritura di chiese e luoghi di culto monastici in questo periodo, ma non ci siamo soffermati a descriverne la tipologia. Nulla di splendido e di sontuoso può essere offerto da popolazioni che conducevano vita grama tra molte e gravi difficoltà esistenziali.
Chi pensasse a chiese grandi e solenni, o idealizzasse l’importanza storica di alcuni monumenti si ingannerebbe di grosso. Infatti, quando il luogo di culto non era limitato ad una piccola cappella, contenente un’edicola, o ad una grotta scavata o naturale sulle pendici o sulle cime dei monti, le chiese non erano che piccoli edifici a capanna, privi di campanile, nobilitati, dove ciò era possibile, solo da riutilizzo di materiale classico e, raramente, come nel caso di S. Mauro di Capradosso, o della grotta di S. Nicola a Staffoli, da affreschi narranti la vita del Santo titolare.
Caratteristico di questi luoghi di culto é il distacco, attraverso un alto scalone, del presbiterio, simbolo di una concezione ecclesiale tipicamente monastica, che vede l’aspetto orante preminente su quello predicante. Gli esempi non mancano nel nostro territorio.
San Mauro di Capradosso, purtroppo avviato di recente a rovina, S. Maria della Macchia di Petrella, anch’essa bisognosa di urgenti interventi conservativi, appaiono accomunate in una tipologia ecclesiale simile, se non identica.
Rettangolari nell’aula, con copertura in cotto sostenuta da capriate lignee, sono site nel pressi di boschi, ai limiti tra questi ed i terreni coltivati e coltivabili. Forse luoghi di preghiera nelle soste di un duro lavoro, erano punti di richiamo per una popolazione che viveva sparsa nel campi, luoghi dove era possibile pregare e dove, forse, se presente il monaco presbitero si potevano ricevere i sacramenti.
Di più nobile fattura, ma ugualmente non solenni nè grandi nelle proporzioni, le pievi, come é ampiamente dimostrato dai resti di San Giovanni di Staffoli.
Qui le pietre squadrate, il rosone di pietre tagliate circolarmente, mostrano un tentativo, non abortito, di ricerca del bello e del leggiadro, forse il massimo che una popolazione, presa totalmente da bisogni esistenziali poteva concedere all’arte. Accanto a queste altri edifici di culto, di pertinenza monastica che, forse, solo la privatizzazione ha salvato alla pietà popolare.
E’ il caso di S. Maria Sconzia, nei pressi di Casali Petrangeli.
Ma altre, oltre a queste, sono scomparse e quasi del tutto dimenticate.
È il caso della citata S. Martino de Broilo e S. Angelo in Colle Dordonis di Petrella, la cui presenza ed il cui sito, essendosi perduta ogni memoria tra il popolo, é nota solo agli studiosi, mentre di S. Silvestro di Petrella e di San Savino di Capradosso, restano solo i toponimi e, nel caso della prima, qualche rovina. Solo alcuni di questi luoghi di culto, mutata la loro funzione, continuano ad esistere.
Il caso di S. Angelo di Staffoli, divenuta parrocchiale del "castrum", di S. Angelo di Fiumata, parrocchiale dello stesso villaggio e ricostruita più a monte dopo che fu sommersa dalle acque del bacino del Salto, di S. Pietro de Molito, divenuta chiesa del Monastero, fondato dalla Beata Filippa Mareri.
Restano le due grotte sopra ai monti. Quella di San Nicola verso Staffoli, spogliata dai pregevoli affreschi per assicurarne la conservazione e quella omonima sopra Piagge, conservata al culto dalla memoria devozionale della Beata Filippa e che é divenuta luogo di devozione con il nome di "Grotta di Santa Filippa" e della quale dovremo parlare ancora.
Si può dire che l’intera tipologia di edifici di culto e la loro stessa esistenza fu travolta dalla grave crisi che nel decimo secolo si abbatte sulle "curtes" e sulle popolazioni equicole e che accelerò il fenomeno dell’incastellamento a cui é legata la rinascita che, dopo il Mille, investì anche il territorio petrellano e ne formò le caratteristiche che ancor oggi sopravvivono.
(Testi tratti da "Petrella Salto e la sua Storia" di Henny Romanin).